giovedì 26 febbraio 2009

Su “The Reader”

Non so se la colpa sia stata delle poltroncine troppo comode del cinema Ambrosio – che al secondo spettacolo incentivano più un lieto riposo che un'attenta visione –, ma ho trovato The Reader un film inutile. Uno di quei film di cui si poteva fare tranquillamente a meno, a discapito anche di un trasversale punto di vista sul tema dell'Olocausto.
La sceneggiatura cade troppo spesso in un ammiccamento fastidioso, a volte pure pretenzioso: il gioco seduttivo della prima parte (calcato da una nudità fin troppo esposta dei due personaggi) si risolve veloce e raffazzonato tra l'educazione sentimentale di Michael, da una parte, e quella letteraria di Hanna, dall'altra.
Ci si ritrova poi, di punto in bianco, con Michael che ha la faccia di Ralph Fiennes (come cambiano le persone nel giro di dieci anni...) e Hanna invecchiata dalla vita in carcere.
Tutte le questioni che il film potrebbe sollevare (il perdono, l'ignoranza, l'ignoranza e l'inconsapevolezza) vagheggiano per due ore e non trovano spiegamento.
L'Oscar è sempre Oscar, ma alla Winslet l'avrei dato per Revolutionary Road e non per questo.

lunedì 16 febbraio 2009

Prima persona singolare

Dopo il dilagare degli orribili, inutili rafforzativi “assolutamente sì”, “decisamente no” e robe simili (a tal proposito, specifico che non frequento neppure le persone che fanno uso di tali espressioni), la nuova moda del mal parlato sembra essere l’utilizzo della terza persona quando si parla di se stessi.
Forse sono state certe trasmissioni televisive che vantano linguaggi giovanilistici, o i social network che hanno imposto questo stile (Cristiana è uscita dall’ufficio, Cristiana è stanca, Cristiana ha un cane, Cristiana va a...), fatto sta che parlare di sé alla terza persona è brutto. Non si fa.

sabato 14 febbraio 2009

San Valentino

Una buona operazione commerciale sarebbe stata far uscire oggi nelle sale il film Revolutionary Road di Sam Mendes, in circolazione invece già da qualche tempo, piuttosto di Questo piccolo grande amore di non so chi.
Il film mi lascia le stesse sensazioni che provai alla visione di American beauty, pellicola da me amata e amata, tanto da rimanere un po’ spaesata di fronte a cotanto déjà vu.
I personaggi vivono il dramma che segue ogni presa di coscienza, e la drammaticità sta proprio nella mancata possibilità di condivisione (benché si sia in coppia o in famiglia).
Nessuno salva nessuno all’interno di un rapporto d’amore, e la consapevolezza, spesso, arriva in tempi diversi, se arriva.
Mendes inscena una pièce solo in apparenza corale; in realtà i protagonisti sono individui che agiscono da soli per tutta la storia.
Qualche particolare “di troppo”: la figura del matto come unico detentore di verità, le sigarette di April e, infine, Kathy Bates, che per me è ormai solo l’ex infermiera Annie e mi aspetto che da un momento all’altro prenda una trave per frantumare le gambe a qualcuno.