mercoledì 16 gennaio 2008

Pag. 8

Sono solo a pagina otto di una giornata di gambe incrociate e un possibile inizio di mal di schiena, che già Philip fa il suo dovere con la sua scrittura così asciutta eppure evocativa. E' come trovarsi di fronte a una di quelle persone schive e diffidenti che aprono bocca solo per stupirti, nel bene e nel male.
Vivere da solo mi permetteva anche di esprimere i sentimenti che provavo veramente, senza dovermi nascondere sotto una maschera virile o matura o filosofica. Da solo, quando avevo voglia di piangere piangevo, e mai ne ebbi più voglia di quando tirai fuori dalla busta la serie di immagini del suo cervello [...] solo perché era il suo cervello, il cervello di mio padre, che lo spingeva a pensare nel modo brusco in cui pensava, a parlare nel modo enfatico in cui parlava, a ragionare nel modo emotivo in cui ragionava, a decidere nel modo impulsivo in cui decideva. Questi erano i tessuti che avevano prodotto la sua serie interminabile di preoccupazioni e sostenuto per oltre otto decenni la sua testarda autodisciplina, erano l'origine di tutto ciò che, quand'ero il suo figlio adolescente, mi aveva tanto frustrato, la cosa che aveva determinato il nostro destino quando lui era onnipotente e decideva per noi.

P. Roth, Patrimonio. Una storia vera, Einaudi, Torino 2007.


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